Boom di food ed enogastronomia nella crisi

Due italiani su tre non rinunciano al gusto e sono disposti a pagare di più se i prodotti alimentari sono di qualità. Eataly ha trasformato questa tendenza in mercato di riferimento con la formula “slow food nel carrello”. Altri gdo seguono il modello, mentre l’alta gamma si lancia nel prêt-à-porter. E c’è chi offre l’esperienza del benessere completo.

Boom di food ed enogastronomia. I consumi sono al palo e una famiglia su due taglia sulla spesa ma il food e il turismo enogastronomico tirano. Forse come non mai. I dati parlano chiaro: il comparto alimentare è cresciuto di quasi il 10% nel 2013 secondo Sda Bocconi (per Altagamma). E i consumi di vini e alcolici e di cibi di alta gamma cresceranno rispettivamente del 5% e del 2% quest’anno. Le cose sono due: o ci sono in giro più alcoolisti e gourmand oppure le propensioni al consumo stanno cambiando. Le persone sono più disposte a rinunciare magari a qualcosa di ordinario per concedersi una gratificazione straordinaria, un piccolo lusso saltuario.

Chiaro che si parla soprattutto di chi vive in condizioni culturalmente privilegiate, che magari guida macchine fuori moda, non ha l’ultimo smartphone ma, seppur senza stipendio da top manager, non rinuncia al piacere del cibo accompagnato da un buon bicchiere o al weekendino con Spa una volta ogni tanto. E secondo una ricerca Fipe i consumi alimentari continueranno ad essere trainati proprio dal fuori casa.

Perché?
Sicuramente il bisogno di evasione unita all’esperienza di un ritorno alle radici. Oggi cerchiamo più che mai delle vie di fuga per interrompere una routine che, con l’atmosfera della crisi, è sicuramente diventata più pesante; un rifugio dallo stress di ogni giorno, ma non, come Guido Gozzano, nelle “buone cose di pessimo gusto di nonna Speranza”, semmai nelle buone cose di gran gusto di cui l’Italia è ricca in ogni dove e che danno piacere.

Cos’è lo street food se non un ritorno alle radici in chiave sfiziosa e cheap? E’ tanto pop ormai che il Gambero Rosso gli ha dedicato una guida ad hoc. E alla domanda ricorrente se il cibo stia rischiando una deriva pericolosa verso la commodity, ossia verso una merce che va comperata al prezzo più basso, la risposta è che semmai è vero il contrario. Come dimostra lo stesso boom dello street food, la qualità conta sempre anche quando i prezzi sono contenuti.

La voglia di qualità si unisce perciò alla voglia di scoperta, che è anche riscoperta. Sì perché la globalizzazione qui non vince. Negli ultimi anni si è assistito ad un recupero del rapporto con le tradizioni: tra il 2008 e il 2012 la quota di italiani che ha preferito le specialità gastronomiche regionali è aumentata infatti di circa otto punti percentuali.

Per comprendere meglio tutto, non va dimenticato che viviamo in un’economia depressa da ormai sette anni. In questo contesto di generale smarrimento è naturale la ricerca di punti di riferimento che vengono dal passato. Non per niente nell’arco di poco più di dieci anni (2001-2011) la quota di italiani che dichiara di seguire la dieta mediterranea nel proprio modello alimentare passa da 46,5% al 55,2%.
La tradizione, lo slow food, la dieta mediterranea sono tutti segni di una cultura della tavola che si fonda sulla convivialità. Il cibo non è più solo un mezzo per nutrire il corpo, è qualcosa di più, un condensato di valori culturali, sociali, estetici, ambientali che ne fa qualcosa di speciale ed unico.

 

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Da qui prende fisionomia una rinnovata sensibilità verso la ricerca della convivialità mortificata nel corso degli anni ’80 e ’90. Persino la voglia di un ritorno alla terra prende forma nella propensione crescente alla preferenza di prodotti acquistati direttamente dal produttore (gli amanti del km zero, i cosiddetti locavores).
Gli italiani, più o meno benestanti, perciò, non arretrano nei loro gusti anche in presenza della crisi. E’ logico che non tutti hanno stipendi con i quali possono permettersi di andare in un ristorante stellato o di fare la spesa comprando soltanto prodotti Dop, però 4,5 milioni di italiani cercano un giusto equilibrio tra qualità e prezzo (il 92,3%) e sono pronti a spendere di più per prodotti di alta qualità; molto più della media di tutti i consumatori, infatti il confronto è tra l’82,4% e il 54,1%.
Molti acquistano soprattutto sull’onda dell’emozione, dell’esperienza, prestando attenzione alla “impressione” che ricevono dal cibo e dai luoghi. A me è successo, per esempio, il ponte di fine anno a Torgiano, coi vini di Lungarotti; ho alloggiato al loro resort “Le Tre Vaselle” che mi ha offerto la visita al museo del vino al termine della quale ho fatto sosta all’adiacente “osteria del museo” e, dopo una degustazione, ho acquistato delle bottiglie souvenir per me e la mia famiglia.  Un’esperienza di benessere completa.

 

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Un interno del Museo del Vino di Torgiano

 

Chi riesce a creare un circuito su questo esempio, legando tradizione – storia – cultura – benessere – turismo –enogastronomia, fa bingo. E’ il nostro petrolio. Il turismo enogastronomico è infatti l’unico settore in cui l’Italia è imbattibile (+12% nell’ultimo anno); sono ben 24 i miliardi di euro spesi da turisti italiani e stranieri in pasti tra ristoranti, pizzerie trattorie, agriturismi. Secondo una recente indagine di Coldiretti il food svetta (35%) in cima a ogni altro aspetto vacanziero, batte la visita ai musei e lo shopping. Mangiare e bere, insomma, sono anche – e soprattutto – il valore aggiunto delle vacanze Made in Italy.

 

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L’indicazione della disponibilità a pagare di più se i prodotti alimentari sono di qualità (la pensano così due italiani su tre), poi, non è in contraddizione con la tensione al risparmio ed è stata colta già da diversi gruppi della grande e piccola distribuzione. Gli italiani restano un popolo di bongustai anche nella crisi e le scelte alimentari le fanno prestando attenzione al loro valore gastronomico, al gusto. Se la qualità c’è ed è riconoscibile si è disposti a pagare di più ma a condizione che non ci sia qualcosa di meglio allo stesso prezzo o addirittura ad un prezzo più basso.

Chi, come Oscar Farinetti, il patron di Eataly (11 negozi in Italia e 5 nel mondo), l’ha capito, si è attrezzato o lo sta facendo sull’onda del successo del suo modello “slow food nel carrello”. Non solo design e gusto, però. Eataly è anche esempio di successo nel recupero di spazi urbani, come nel caso dell’ex Air Terminal Ostiense di Roma.

 

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Eataly Roma all’ex Air Terminal Ostiense

 

E’ partito da Milano poche settimane fa, per esempio, il progetto pilota per il nuovo format di Carrefour. La catena francese della gdo ha lanciato il super gourmet : ambiente chic, specialità Made in Italy e prezzi accessibili.

 

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un interno del Carrefour Market Gourmet di Milano

 

Anche Lidl gioca la carta premium. La catena tedesca vuole scrollarsi di dosso l’etichetta di hard discount per far valere le sue doti di supermercato a tutto tondo, attento ai consumi e alla qualità delle proposte, nell’alimentare come nell’abbigliamento. Prova ne è che sugli scaffali si susseguono a rotazione prodotti dop o vini doc e si sforna addirittura il pane.

Altri che operano nell’alta gamma si lanciano invece nell’esperimento del prêt-àporter (i cibi di lusso alla portata di tutti), come Tartufi&Friends del gruppo Sermoneta; dopo Roma ha aperto un nuovo locale a Milano (in corso Venezia 18 nel Palazzo Serbelloni) e innaugurazioni di nuovi store sono previste nel 2015 a  Londra e Dubai. “Stiamo replicando quello che è successo nella moda con i monomarca degli anni ’90”, ha spiegato il ceo Angelo Sermoneta.

 

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L’interno di Tartufi&Friends a Milano

 

Nella ristorazione, poi, il progetto avviato nel 2006 a Roma da A.R.P. (Advanced Retail Project) con Molto offre spunti di innovazione interessanti. Tanto da candidarsi sicuramente a modello nella proposta dell’arte dell’accoglienza e della cucina italiana, intesa anche come esperienza. Nulla è lasciato al caso, i sapori classici e la tradizione si fondono con le nuove influenze in un ambiente dal design unico e dalla ricercata cura dei dettagli.

 

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L’ingresso di “Molto”

 

Il cibo non soddisfa più solo il gusto e l’olfatto, ma anche la vista, il tatto e, perchè no, l’udito; diventa una fonte di piacere a tutto tondo, scoperta ed emozione. Questo è tanto più vero in Italia, culla della tradizione gastronomica mediterranea, dell’arte e con una importante tradizione nel design contemporaneo. Con la crisi diventa anche “via di fuga”, stile di vita, cura di sè.

La diffusione di questo nuovo spirito neo-edonista e buongustaio – che a differenza degli anni ’80 non sfocia negli eccessi ma nella riscoperta dei fondamentali – la si riscontra nel successo di alcuni programmi televisivi, figli più evoluti de “La Prova del Cuoco” e di “Cotto e mangiato“. Si pensi ai record di“Master Chef ” (1 milione di telespettatori e picchi di share del 4,2%). “Come una finale di Champions”, è stato il tweet entusiasta del vicepresidente di Sky Italia Andrea Scrosati. Già, perchè il boom ha investito anche i social network. La risposta della Rai non si è fatta attendere col talent culinarioCuochi nella tormenta. Senza parlare della proliferazione di eventi food di ogni foggia.

E che dire dell’online, con la nascita e il successo di siti comePuntarellarossa? Che, a differenza della gran parte delle voci di settore, oltre a dare voti e indicazioni, fornisce stimoli e punti di vista dei diretti interessati, i clienti, superando il classico concept di “guida”.

 

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“E’ evidente non tanto l’autoillusione di un ritorno a come si stava prima, ma la voglia di ricominciare a vivere, seppur con una nuova consapevolezza”, è il parere della sociologa Monica Fabris. Una piccola-grande verità che è emersa anche dalla ricerca ”Crisi e generazioni” svolta dall’Istituto di Ricerca Gpf per Axa Mps nel 2009. ”Penso a godermi la vita, i sacrifici li lascio agli altri” e’ un’affermazione in cui si riconosce il 27,6% degli intervistati, dato superiore di quasi 4 punti percentuali a quello del 2008 (23,7%). Questo trend, pur riguardando una minoranza degli intervistati, e’ confermato anche dalla crescita di altri atteggiamenti consumistici: in cinque anni l’affermazione ”spendo tutto quello che ho, non mi interessa risparmiare” e’ passata, ad esempio, da una percentuale di accordo del 16% a una del 27%. Si tratta di segnali che fotografano un mutamento del paradigma sociale: dall’austerity e dalla sobrietà si passa alla riscoperta della “joie de vivre”, di fronte a una ormai consolidata incertezza quotidiana con cui si deve convivere.

Insomma, il “siamo ciò che mangiamo” di Feuerbach non è mai stato tanto attuale. Abbiamo meno soldi in tasca ma sicuramente siamo più bon vivant.

 

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*I dati sui consumi delle famiglie provengono dalle indagini condotte annualmente dall’Istat e dalla contabilità nazionale. La stima al 2011 dell’andamento dei consumi alimentari è stata effettuata utilizzando l’ICC elaborato dall’Ufficio Studi di Confcommercio mentre per l’attualizzazione dei valori al 2011 sono stati utilizzati gli indici dei prezzi al consumo dei prodotti alimentari e dei pubblici esercizi. I dati sugli stili alimentari provengono in gran parte da un’indagine Eurisko presentata nel 2010 in occasione di un convegno Fipe sulla ristorazione di qualità a Bergamo.

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