Il “fusion” che avanza, tra pop-up restaurant e food marketing

La cucina fusion o open kitchen (cucina aperta) è nata, sempre per ragioni storiche, dall’incontro tra due o più culture. Culle di questa “apertura” alle contaminazioni culinarie sono gli Stati Uniti e il Sud America, terre di grandi flussi migratori. Esempi ce ne sono tanti e negli Stati Uniti le ricette fusion spopolano. In sintesi è l’Oriente che incontra l’Occidente, il Sud che si mescola al Nord.   

Molte volte –  come nel Nikkei e nel Nippo-brasiliano – la contaminazione nasce come esigenza più che come scelta di gusto. La necessità degli immigrati del Sol Levante, infatti, era quella di sfruttare i prodotti disponibili sul posto (Brasile e Perù, ma anche California) per preparare i piatti della loro tradizione. La cucina ha quindi assunto una propria identità attraverso un percorso.

Qui da noi, invece? Tra qualche iniziativa originale d’importazione ce ne sono anche di strampalate, che più che fusion fanno molta “Con-fusion”. E il percorso spesso è al contrario. Si parte dal “format”, dal “concept”, dal “target” – tutti inglesismi che “fanno figo” ma che non significano assolutamente nulla, parole vuote, come il sapore di certe pietanze – e si incarica qualcuno (meglio se noto, che “brandizza”) di creare in laboratorio qualche piatto artificiale (o artificioso)  da dare in pasto al giovine in cerca di nuovi stimoli. Una volta si drogava questo giovine, ora si rincoglionisce con miscelazioni improbabili (estratte da qualche misterioso manuale del “Mixology” ritrovato a New York in uno speakeasy degli anni ’30 sotto il Ponte di Brooklyn…).

 

Fusion Roma Milano

 

Così, tra pop-up restaurant che cambiano fondali scenografici e “design” più velocemente dei pop-up store delle stazioni – a seconda della bisogna – e food marketing studiato, si fa brainstorming, si mettono insieme un pò di idee confuse e si fa il “fiùscion” per cavalcare l’onda (che da noi arriva sempre lunga e la prendiamo quasi sempre alla fine). Un’altra foglia di fico alla furberia nostrana. A Roma, come a Milano. Cambia solo l’accento (a Milano sulla ì).

Che poi, se ci si pensa bene, e nemmeno senza sforzarsi troppo, il nostro “fusion” ce l’abbiamo eccome! Basta guardare alla cucina siciliana (col cous cous di pesce trapanese dal sapore tunisino o il pani câ meusa palermitano che richiama al kebab turco); alle nuove influenze dell’immigrazione (la pizza sarà sempre più egiziana) o alla storia del cocktail italiano, con gli amari e i vermouth (a proposito, mentre noi siamo ancora fermi al “mixology amarricano” a Londra stanno nascendo i Vermouth Bar…).

Ma a noi piace la presa per il “cool” e, alla fine, ci ritroveremo come Carlo Verdone in “Borotalco”. Con lo sguardo un pò imbecille, alla domanda: “Com’è sta coda de alaccia cor miele de acacia e sto spruzzo de wasabi cò sta salsa de yogurt greco??” Risponderemo: “E’ fiùscion!”.
 
 

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