Coronavirus e ristorazione. Dopo la pandemia non torneremo come prima

Ristoranti e coronavirus. Dopo la pandemia non torneremo come prima.

“Il distanziamento resterà per molto più di qualche settimana. Rovescerà il nostro modo di vivere, in qualche modo per sempre”, sostiene Gordon Lichfield, direttore della MIT Technology Review – la webzine della prestigiosa università americana – in un saggio dal titolo “We’re not going back to normal”, in cui analizza i cambiamenti nella vita di tutti che la pandemia finirà per cristallizzare.
Dopo quanto accaduto, da Wuhan in poi, è difficile immaginare che le nostre abitudini e i nostri comportamenti torneranno quelli di prima. E questo al di là degli obblighi normativi e degli adattamenti alla Fase 2 post emergenza. La vera domanda è: come saremo nella Fase 3? Una cura e un vaccino al Covid-19 ci faranno sentire al sicuro? Nuove pandemie saranno sempre possibili. Con questo assunto e questa nuova consapevolezza dovremo fare i conti e convivere.

Come sarà la ristorazione dopo la pandemia. I luoghi della socialità e dello svago, ristoranti, caffè, bar e locali pubblici in generale, non torneranno a essere più come prima. Come in “The Nude Restaurant” di Andy Warhol, tutte le convenzioni a cui eravamo abituati verranno capovolte o abbattute.
“I ristoranti ci fanno sentire culturalmente vivi. I ristoranti sono un efficace luogo di connessione, comunità, emozioni e decadenza”, afferma al Time Dan Barber, lo chef d’avanguardia che ha guadagnato due stelle Michelin portando avanti il farm-to-table a New York. “Avendoli chiusi e incatenati, quando ne verranno fuori, penso sarà molto difficile riaverli indietro” come li abbiamo conosciuti.
Quindi, stop, fine dei giochi, non c’è più futuro per i ristoranti che ora, per poter riaprire, sono costretti a dimezzare i coperti mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza economica? Niente affatto. “Mi sento ispirato dalla crisi che porta a un’opportunità”, dice Barber, che si chiede: “in che modo tutto ciò cambia il nostro rapporto con il cibo? E c’è un modo per creare un nuovo paradigma?”
“Ciò che dobbiamo fare è progettare un sistema alimentare regionale completamente nuovo in grado di resistere a questi shock e ad altri che verranno”, è la sua base di ripartenza. Beh si dirà, nulla di più facile per noi italiani a lungo fanatici del km zero e pronti seguaci del farm-to-table.  Basta una ricerca su Google (“farm to table Roma”) per verificare che diversi ristoranti adottano già questa filosofia e che, sorpresa sorpresa, la Capitale – con Farmers, Buff, Gli Ulivi, Aromaticus e altri – batte Milano 15 a 1 su questo aspetto (Erba Brusca è il solo nel capoluogo lombardo).

Sicurezza al primo posto. E’ chiaro, però, che a tenere banco anche nel new normal sarà la sicurezza, alimentare e sanitaria. Se una maggiore consapevolezza della prima, secondo uno studio della società di consulenza strategica Kearney sull’impatto economico del Coronavirus, aumenterà la domanda di cibo locale, la sicurezza sanitaria impatterà direttamente sui luoghi. Il distanziamento sociale da obbligo di legge diverrà costume acquisito, abito mentale. E se i due metri tra un tavolo e l’altro imposti dalle nuove ordinanze di maggio saranno una misura temporanea, difficile – se non impossibile – pensare che nella Fase 3 si possa tornare ai tavoli ravvicinati (o attaccati), come spesso accadeva. E la mise en place? E il servizio? Saranno il più possibile asettici. “I servizi a buffet potrebbero scomparire così come i piatti condivisi“, sostengono Leslie Patton ed Edward Ludlow di Bloomberg e “i lavoratori potrebbero indossare guanti e mascherine”. Se queste ultime potrebbero essere risparmiate alla sala, avendo cura di rispettare la distanza, non è però così difficile immaginare il ritorno del servizio in guanti bianchi. Non solo. Le posate potranno essere confezionate individualmente, come avviene già in alcune mense e negli ospedali. Come già fanno tanti locali per sola economia, poi, la carta potrà sostituire agevolmente runner e tovagliette dove si lavora su più turni. Una scelta più sostenibile – e di gusto estetico – potrebbe portare a considerare apparecchiature in materiali eco che consentono una rapida disinfezione. Anche i menù dovranno essere adeguati ai nuovi standard e, quindi, usa e getta o in materiali plastici che si possono facilmente igienizzare, salvo nei ristoranti di livello dove tornerà a esporli il maitre.

La tecnologia e la digitalizzazione per ridurre i rischi. Altro aspetto da considerare è che si dovranno ridurre al minimo i punti di contatto umani e il passaggio di contanti (potenziali portatori di virus). Il contactless o touchless e le App degli smartphone diverranno il metodo di pagamento privilegiato. L’ordinazione con tecnologia mobile, poi, andrà oltre il delivery e il take away. L’azienda italiana HealthyFood, attraverso la piattaforma MyCIA, ha già lanciato un servizio ad hoc “My Contactless Menù” che, oltre a essere un menù digitale che traduce in maniera istantanea in 60 lingue, diventa accessibile anche da casa, assicurando a chi sta cercando il luogo migliore in cui mangiare i piatti preferiti in tutta sicurezza. Al ristorante il cliente può visionarlo attraverso la semplice scansione via smartphone di un QR Code posizionato sul tavolo. My Contactless Menù consente anche la prenotazione online del proprio tavolo direttamente dall’App e di attivare “Order & Pay by Phone” per ricevere il conto in formato digitale e saldarlo dallo smartphone. Lo stesso approccio di Sooneat che in più ha la chat interna tra clienti e il personale.

Se il cambiamento sarà perciò culturale e di costume ancor prima che legislativo, gli imprenditori, host e chef, dovranno compiere uno sforzo consapevole per soddisfare le esigenze della nuova mentalità pandemica. Pena il biasimo della clientela, che approderà a porti ritenuti più sicuri. Certamente il cambiamento comporterà oneri e non sarà privo di difficoltà. “Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e da più valore ai problemi che alle soluzioni”, scriveva Albert Einstein nel 1931 in piena Grande Depressione: “la vera crisi, è la crisi dell’incompetenza”. Tra qualche mese, come sostiene il critico Valerio M. Visintin, basterà voltarsi indietro “per guardare finalmente al passato con realismo” e, forse, apparirà con maggiore evidenza che l’incompetenza, assieme all'”improvvisazione”, sono stati gli ingredienti più diffusi nel “castello di carte” della ristorazione.

*Nella foto di apertura la caffetteria del Centro Eventi e Congressi dell’Isola di San Servolo a Venezia

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